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Sinistra e Blair, mito finito

  

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SINISTRA E BLAIR, MITO FINITO


Non si dimetterà. Ma chi lo ha appena visto in tv impietrito di fronte all’inviato di un tabloid inglese che, in Giappone, gli chiede se intende farlo e, prima ancora, se ha le mani sporche di sangue, fatica a riconoscerlo. Perché forse nessun altro leader politico europeo delle ultime generazioni ha avuto il fascino e il carisma mediatico di Tony Blair, e la stessa innata capacità di dividere, soprattutto a sinistra: da quando, negli anni Novanta, ha iniziato la sua battaglia per prendersi il partito laburista e cambiargli radicalmente i connotati, e soprattutto da quando, nel ’97, è entrato a Downing Street, in tutta Europa, e anche in Italia, per una sinistra è stato un modello, persino un mito, per l’altra l’avversario da battere, e magari un incubo. Adesso rischia di trasformarsi, per tutti, in un imbarazzo.
Le due sinistre debuttano a Malmoe, nel giugno del ’97, al congresso del Partito socialista europeo. Modernisti di Londra contro statalisti di Parigi. Tony Blair contro Lionel Jospin. Lapidari entrambi. «Sì all’economia di mercato, no alla società di mercato», è la formula del neo primo ministro francese, convinto che «le forze del mercato, lasciate a se stesse, minacciano il concetto stesso della nostra civiltà». Blair, pochi anni prima, ha dato battaglia alla sinistra del suo partito e alle Trade Unions con una parola d’ordine quasi brutale: «O ci modernizziamo o moriamo». Adesso che ha vinto, e che un po’ in tutta Europa le sinistre sono al governo, non cambia registro: «Gli elettori moderni non sono né indulgenti né pazienti. Non abbiamo un diritto divino a governare. Se non riusciremo a cambiare, saremo spazzati via. Giustamente». E cambiare significa rinnovare radicalmente il modello socialdemocratico: «Non riduciamoci a diventare un altro partito conservatore che difende lo status quo, che si erge contro il mondo sperando che il mondo se ne vada: non se ne andrà».
Cambierà, eccome, il New Labour, e Blair si proporrà come il campione del cambiamento. Addio lotta di classe, addio difesa acritica di quel tanto di Stato sociale lasciato in piedi da Margaret Thatcher. Equità e impresa «devono andare mano nella mano», dove c’è un diritto deve esserci un’assunzione di responsabilità. A molti, in Inghilterra e fuori, non solo nella Parigi di Jospin, che lo guarda in cagnesco, riesce difficile comprendere dove, come e perché il riformismo blairista si differenzi dal liberismo. Ma è molto più nutrita la schiera degli ammiratori, i libri dell’ideologo di Blair, Anthony Giddens, teorico della «terza via», diventano grandi successi editoriali. Al New Labour, nella sinistra europea, guardano con crescente simpatia gli olandesi e gli scandinavi. Poi è la socialdemocrazia tedesca a risolversi al gran passo: Schroeder, che ha un passato molto di sinistra, la riporta finalmente al governo, presentandosi come l’alfiere di una Neue Mitte , un nuovo centro. Assieme, Blair e Schroeder produrranno un documento politico e programmatico destinato a fare scandalo a sinistra: vi si legge, tra l’altro, che «la flessibilità del lavoro è l’obiettivo stesso della lotta dei socialisti». Neue Mitte e Terza Via sono sinonimi.
Ma dire Blair, in questi anni, vuole anche dire Bill Clinton. Nella primavera del ’98, il premier inglese lancia ufficialmente l’idea di un superamento dell’Internazionale socialista, per dare vita, al suo posto, a un’Internazionale di centrosinistra, che comprenda anche i Democratici americani. I francesi sono, manco a dirlo, fieramente contrari. Gli italiani, invece, sono interessati: a Roma governa l’Ulivo, Center-Left, appunto, non una socialdemocrazia. Forse potrebbe nascere addirittura un Ulivo mondiale, come qualcuno va improvvidamente dicendo: a New York, negli stessi giorni in cui, a Washington, il procuratore Starr diffonde il testo dell’interrogatorio di Monica Lewinsky, Bill Clinton, auspice Hillary, incontra Blair, Romano Prodi e Walter Veltroni, che ha appena dichiarato il comunismo «incompatibile con la libertà». A Roma, i collaboratori di Massimo D’Alema (che è ancora a Botteghe Oscure) ridimensionano assai la cosa: un’iniziativa della First Lady.
Un anno o poco più, e il quadro cambia. In Italia, dove Prodi è caduto, e gli è subentrato D’Alema, Fausto Bertinotti è rimasto quasi solo, dopo la guerra del Kossovo, a denunciare «un nuovo ordine mondiale, dominato dagli Usa e fondato sulla guerra». Di globalizzazione si parla assai, ma i no global sono di là da venire. L’America, l’America di Clinton, piace assai. Anche a D’Alema, convinto che «il socialismo debba aprirsi ad altri riformismi», e già abituato a parlare in pubblico di Clinton come di Bill, e di Blair come Tony. A Firenze, il 21 novembre del ’99, l’Ulivo mondiale, o come altrimenti lo si voglia definire, fa la sua prima comparsa ufficiale. La scena, anche se ci sono tutti i partiti socialisti che contano, e se seduto in platea c’è pure Prodi, è dominata, appunto, da Bill, da Tony e da Massimo: Jospin è riuscito ad ottenere soltanto che, nel titolo del convegno, non si parli di Terza Via, ma più genericamente del «riformismo del XXI secolo». L’impianto dell’iniziativa (preparata come un grande evento mediatico, Roberto Benigni compreso) è blairista al punto che D’Alema, provocando le ire dei sindacati, annuncia agli astanti, nel suo intervento, che è venuto il momento di porre mano, in anticipo, alla riforma delle pensioni. E gli applausi si sprecano quando Blair enuncia, scandendo le parole, uno dei capisaldi della sua filosofia: «Quando l’Europa e gli Stati Uniti si parlano, il mondo sta meglio».
Non c’è che dire: a questo assunto il primo ministro inglese resterà fedele. Anche quando Clinton lascerà la Casa Bianca a George Bush jr., di Ulivi mondiali non si parlerà più, la sinistra non sarà più al governo in molti Paesi europei, dalla Francia di Jospin all’Italia di Prodi, D’Alema e Amato, e prenderà dimensioni sempre più vaste un movimento, quello no-global, fortemente intriso di antiamericanismo. Blair non cesserà per questo di essere, se non proprio un mito, un punto di riferimento molto importante, anzi, il più importante, per le componenti più dichiaratamente riformiste della sinistra europea: se le elezioni è tornato a vincerle, anzi, a stravincerle, un motivo ci sarà pure.
Il quadro cambia, e di parecchio, dopo l’11 settembre. O, più precisamente, quando comincia a prendere sempre più corpo la prospettiva di un intervento militare in Iraq. Per una parte vasta della sinistra, quella che scende in piazza, è la conferma di un giudizio antico: Blair è il cagnolino degli americani. Per i riformisti, il discorso è più complicato, fatto di contestazioni per l’intervento e di apprezzamenti per il tentativo di contenere l’unilateralismo degli Stati Uniti e per il forte impegno per imporre il negoziato, anzi, la pace in Medio Oriente: nonostante la divisione feroce creata dalla guerra, il motto blairista secondo il quale «quando l’Europa e gli Stati Uniti si parlano, il mondo sta meglio» mantiene intatta la sua verità, e forse la rafforza. Ma il rapporto non è più quello di una volta. A Londra, la scorsa settimana, il vertice del Center-Left (ci sono D’Alema, Amato e Rutelli, e new entry di grande rilievo, come il brasiliano Lula) non può che registrare, e diplomatizzare, i dissensi: la Terza Via segna il passo. E infine, atroce, il caso Kelly, l’impopolarità crescente del più popolare dei leader della sinistra europea, le sue difficoltà crescenti in primo luogo nel partito, il suo annaspare davanti alla domanda feroce di un giornalista. Forse rialzerà la testa, Blair, e comunque darà tutta la sua battaglia, perché è un combattente politico vero e orgoglioso, come ha dimostrato ancora pochi giorni fa, davanti al Congresso degli Stati Uniti. Ma adesso nella sinistra europea, e anche in quella italiana, «blairisti» si dicono davvero in pochi.

Paolo Franchi

Tratto dal quotidiano Il Corriere Della Sera








 

 

 

 

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