Blair nel letto vicino a un killer

 

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A Londra a Londra!


Vanno a viverci manager americani e rifugiati politici, medici e calciatori, top model e professori universitari. Ecco perché la capitale inglese attira più di ogni altra. Al punto che rischia di scoppiare
di Mara Accettura

Al quinto piano di un attico a Clerkenwell, i sociologi Richard Sennett e Saskia Sassen hanno ricreato l'atmosfera di un loft americano. L'aria che si respira non ha nulla a che fare con le moquette polverose, i caminetti di ghisa, le tende tirate e le carte da parati delle case londinesi. Qui ci sono grandi vetrate e luce accecante, parquet chiaro e sedie moderniste, oltre a una terrazza rigogliosa di camelie, rosmarino e bamb?nero. Arrivati tre anni fa da Chicago, tutti e due insegnano alla London School of Economics, e si occupano di temi come le conseguenze del capitalismo sulla vita personale e le dinamiche dell'ineguaglianza sociale. Sassen, in particolare, studia i flussi migratori nelle città Appartenenti al gotha intellettuale globale, come considerarli immigrati? "Sono un lavoratore temporaneo", ammette con eccezionale modestia Sennett, che ha scritto L'uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale (Feltrinelli) e Usi del disordine. Identit?personale e vita nella metropoli (Costa&Nolan). "Dal punto di vista burocratico, siamo professionisti stranieri", riprende Sassen, autrice di Globalizzati e scontenti (Il Saggiatore). "è un termine diverso da immigrato, che ormai indica i poveri disperati del Sud globale. Cerco di dire, a lezione e nella vita, che siamo tutti "lavoratori emigranti", definizione che preferisco perché neutrale". Tutti nel Regno Unito. Professori universitari americani, banchieri tedeschi, medici sudafricani, manager italiani, informatici indiani che arrivano a frotte dal resto del mondo, passaporti e permessi di lavoro timbrati: ecco l'altra faccia del terribile problema degli asylum seeker, i rifugiati che scappano dai loro inferni domestici. Secondo uno studio sul lavoro dell'University College London, il flusso di lavoratori stranieri legali nel Regno (un milione e centomila nel 2000) ?cresciuto soprattutto durante gli ultimi anni Novanta, è il fattore che influenza di più la crescita demografica e si ?concentrato per due terzi nel Sud-Est del Paese. Secondo le previsioni, ?destinato a far esplodere soprattutto la capitale, dove la popolazione (giàcresciuta negli ultimi dieci anni da 6 milioni e 900 mila a 7 milioni e 400 mila) toccher?nel 2016 le 8 milioni e 150 mila persone. "Questo trend", spiega John Salt, direttore del Migration Research Unit dell'Ucl, che lo scorso ottobre ha completato uno studio per il ministero dell'Interno, "?dovuto in parte alla liberalizzazione del mercato del lavoro, che ha visto il Regno Unito posizionarsi in maniera competitiva all'interno del mercato globale, con una domanda continua di occupazioni ad alta come a bassa abilit?quot;. In parole povere: l'enorme numero di permessi di lavoro (55.494 emessi nel solo 1999), la flessibilit? la cultura dei contratti a termine creano posto per tutti, dal manager della societàinformatica nella City all'uomo che gli pulisce l'ufficio di notte o al cameriere che gli prepara il panino a pranzo. A Londra in cerca di opportunità Tony Travers, direttore del Greater London Group alla London School of Economics, sostiene: "Questa è la sola città in Europa dove un banchiere straniero può guadagnare un milione di sterline all'anno, e un rifugiato può arrivare la mattina e trovare lavoro nel primo pomeriggio". ?vero? "Ci sono pochissime città al mondo dove uno straniero può arrivare al top", conferma Sennett. "Londra, che io considero la capitale d'Europa con un'isola attorno, è una di queste. Per strano che possa sembrare, a New York ?più difficile occupare la stessa posizione. Negli Usa la cultura americana predomina, ed ?facile che le minoranze, anche di classe media, vivano in piccole enclavi. Londra, invece, è una città denazionalizzata, davvero multiculturale". "Prendi Wall Street", esemplifica Sassen, "dove il capitale americano rappresenta l'80%, e la City, dove è il 50%. L'internazionalizzazione, qui, ?molto più forte". I numeri, per? non rendono giustizia all'ultradinamismo della Gran Bretagna. Per capire, bisognerebbe immaginare l'Inghilterra come un'enorme stazione, piena di viaggiatori che salgono e scendono dal treno del lavoro globale con biglietti di andata e ritorno. Tra il '75 e il '79, per esempio, il numero degli emigrati che ha lasciato il Regno ha superato quello degli immigrati (171 mila persone). Ma dal '95 al '99 ?successo l'opposto: il guadagno netto di immigrati si ?attestato sulle 163 mila persone. Questi continui movimenti hanno creato vuoti per certe figure professionali: il 60% dei permessi di lavoro riguardano medici, infermieri, programmatori di computer e manager. Ma la città più cosmopolita d'Europa ?vittima del suo stesso successo economico e culturale. Ci lavorano già520 mila stranieri, e se ne aspettano altri 750 mila entro il 2016. Come far?fronte a questa massa di persone? Il mercato immobiliare, per esempio, ha già raggiunto picchi di follia. ?per questo che il sindaco di sinistra Ken Livingstone ha applaudito l'invenzione di casette portatili, prefabbricati da 25 metri quadri che potrebbero risolvere il problema di dare un'abitazione a chi non ha abbastanza soldi. Poliziotti, infermieri e insegnanti non riescono a tenere il passo nella corsa alla proprietà e sono costretti a scappare dalla capitale. Altri servizi sono giàin crisi. Nei prossimi 12 anni, oltre a 23 mila nuove case, serviranno 130 scuole in più 3000 insegnanti, tre nuove linee ferroviarie e decine di ospedali. "La Metropolitana ?lentissima e sovraffollata, i taxi, i cinema e i ristoranti costosissimi", si lamenta Stefano Tonelli, architetto dello studio Foster, arrivato l'anno scorso da New York. Il processo di integrazione Non è empre facile. "è stato orribile", ricorda Pierre-Yves Gerbeau, ex executive del fallito Millennium Dome. "Il primo giorno ho tentato di riprendere l'Eurostar per la Francia almeno tre volte". "Ero scioccata", racconta la food writer egiziana Claudia Roden, "il cibo faceva così schifo...". E Steffen Freund, calciatore tedesco: "Nei primi quattro mesi ho giocato 26 partite, senza conoscere nessuno e senza sapere una sola parola d'inglese". Per chi conosce la lingua, le cose non vanno meglio. "Parliamo lo stesso idioma", dice Jane, di Boston, manager di una banca d'investimento americana nella City, "ma diciamo cose diverse. Pensa solo a una parola come quite. In Usa significa "molto", qui "così così quot;. Il livello della conversazione può cambiare moltissimo senza che ce ne si accorga". L'apparente semplicit?dell'inglese nasconde strati e strati di sfumature psicologiche, come insegnano tanti romanzi di Henry James, dove l'ingenuit?americana ?vittima fatale della decadente e sofisticata snobberia british. Forse non è un caso che gli inglesi abbiano inventato i club, un complicatissimo sistema di classi sociali e le regole di molti giochi. Se non le conoscete, non serve tirare i dadi: rimarrete inchiodati alla casella di partenza ignorando come mai gli altri abbiano giàcompletato il giro. Come me quando, otto anni fa, al termine di una serata in un ristorante, una simpaticissima irlandese si accomiat?dicendomi "We must meet sometimes", "Dobbiamo vederci qualche volta". Entusiasta all'idea di avere un'amica, risposi: "Bellissimo! Quando?". Dalla tavolata partè un boato di risate. In separata sede, mi venne cortesemente spiegato che la vaghezza di quel "Qualche volta", in genere, significa: "Mai più nella vita". Anche per la scrittrice femminista Germaine Greer, arrivata nel '64 dall'Australia, certi comportamenti erano impenetrabili. "A Cambridge, per un anno mi sono chiesta perché la gente con cui avevo cenato la sera prima non rispondeva al mio saluto la mattina dopo. L'anno seguente, mi chiedevo perché persone che non avevo incontrato fingevano di conoscermi". ?d'accordo Sandy Quemby, primo violino della Royal Philarmonica Orchestra, nata in Corea, vissuta tra Pittsburgh e New York: "Gli inglesi sono isolani, mi ricordano i giapponesi. La loro gentilezza ?superficiale. Storicamente, ?servita a intrattenere rapporti commerciali. Puoi andare loro vicino, fino a un certo punto. Poi incontri una barriera. Invalicabile. E poi: in quale altro Paese la gente ti classifica da come rispondi al telefono? Dici: 'Hello, how are you?', e l'interlocutore ha giàdeciso da dove vieni, che scuola hai frequentato e a che classe sociale appartieni". In Denti bianchi, dell'anglogiamaicana Zadie Smith (Mondadori), gli immigrati si avvinghiano alle radici per paura di essere annichiliti dalla cultura ospite. Per questa ?ite professionale, che ha sempre passaporto e biglietto aereo in tasca e una valigia sulla porta di casa, l'identit?ricorda i quadri paradossali di Escher, dove i pesci diventano uccelli, le scale scendono o salgono a seconda della prospettiva. Appartenere a tutti i luoghi perché non si appartiene a nessuno. "Sono un'essere transeunte", dice Sandy. "Non ho nazionalit?n?madrelingua. Le mie radici sono dove passo". "Mi piace considerarmi una straniera", conclude Sassen, cresciuta tra Argentina, Stati Uniti, Italia e Francia, "che si sente a casa ovunque si trovi".

Tratto da D di Repubblica

 

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